mercoledì 5 marzo 2008

Nicola Spedalieri

Versione 1.1

Nasce a Bronte nel 1740. Muore a Roma nel 1795. Era un prete. Il titolo completo della sua opera principale è il seguente: «De’ Diritti dell’uomo libri sei nei quali si dimostra che la più sicura custode dei medesimi nella società civile è la religione cristiana e che però l’unico progetto utile alle presenti circostanze è da far rifiorire essa religione”. Ed è tutto un programma. La sua opera, edita nel 1791 fu pubblicata dapprima con il permesso di Pio VI, ebbe un successo di quattro edizioni consecutive, ma fu poi proibita e messa al bando fino al 1860. Formula una teoria dei limiti del potere, che si deve arrestare davanti alla libertà di pensiero, al diritto di proprietà. Si avvicina a Locke ed esprime avversione per Hobbes. Fra le contraddizioni cui Spedalieri va incontro nel suo tentativo di conciliare il cattolicesimo con i nuovi diritti può registrarsi la sua giustificazione della censura ecclesiastica (libro V, cap. XIII). Nel suo modo di esprimersi Spedalieri parla di un diritto dell’individuo di perfezionare se stesso, che per un verso potrebbe essere un riconoscimento dell’odierno diritto rivendicativo, ma che per altro verso contrasta con l’insegnamento paolino dello stare quieti e contenti della condizione sociale toccata in sorte, fosse anche una condizione di schiavitù.

La strenua difesa del diritto di proprietà, inteso in senso squisitamente patrimoniale ed associato strettamente al “diritto di conservazione” ed al “diritto di perfezionamento”, trova forse una migliore spiegazione nel contesto socio-economico in cui si formò il pensiero di Nicola Spedalieri che non in un’astrazione che condusse altri pensatori, magari utopisti, ad un sacrificio del diritto di proprietà in vista di un migliore perseguimento del fine della felicità, che è pure il presupposto fondamentale cui si attiene Spedalieri. Perfino Locke si distacca da una concezione puramente patrimoniale della proprietà, collegandola al lavoro ed ai frutti del lavoro. La libertà di pensiero di cui Spedalieri parla non è tanto rivolta – parrebbe – alla mera ricerca della verità, quanto al libero giudizio circa l’utile proprio. Se è così, si spiega perché mai il filosofo siciliano non insorga contro la censura episcopale, alla quale evidentemente è riconosciuta piena giurisdizione sulla Verità. Fatalmente, l’esser prete sfocia in Spedalieri nella “volontà di Dio”, a conclusione di un’artificiosa teoria dei diritti e dei doveri. La ragione illuministica deve arrendersi alla Fede e trovare in questa il suo fondamento.

È da chiedersi, previa un’attenta lettura dei sei volumi, se lo Spedalieri si sia confrontato con l’opera di un suo contemporaneo, Francescantonio Grimaldi, nato all’incirca nello stesso anno nell'altra parte dello Stretto, in Seminara di Calabria, il quale scrisse negli anni 1779-80 tre volumi Sull’ineguaglianza fra gli uomini. Mentre in Grimaldi non può dirsi che vi sia una giustificazione dell’ineguaglianza, o una difesa di principio della proprietà, ma solo la constatazione che l’ineguaglianza si ricrea spontaneamente in ogni contesto storico e sociale, in Spedalieri sembra di ravvisare una preoccupazione di dare saldo fondamento alla proprietà privata proprio in anni in cui essa veniva fortemente messa in discussione. È del 1783 il terribile terremoto che scosse dalle fondamenta tutti i paesi al di qua eal di là dello Stretto. Per finanziare la ricostruzione il governo dell’epoca mise le mani sulle proprietà ecclesiastiche, che erano nella stragande maggioranza gravate da censi perpetui, cioè da un diritto perpetuo di rendita disgiunto dalla proprietà piena. Si passerà poi alla proprietà moderna che di fatto creò poi la proprietà moderna e la condizione bracciantile. Chi lavorava la terra non migliorò, non “perfezionò” la sua condizione, se mai la peggiorò notevolmente. L’opera di Spedalieri dovrebbe esser letta e verificato nello specifico dei rapporti di proprietà dell’epoca. Solo così se ne può avere una compiuta intelligenza.

Se non ricordo male, Spedalieri svolge un’osservazione che era già presente in Grimaldi in un'opera scritta appena dieci anni prima, e cioè che è una mera finzione l’ipotesi dello stato di natura. La vera condizione di natura è quello in cui l’uomo si trova già al momento della sua nascita, e quindi è lo stato civile già articolato in rapporti sociali di sovra e sottordinazione. Al momento mi baso su fonti secondarie, ma mi sembra evidente la lettura di Grimaldi e sarebbe strano se così non fosse. Che poi lo citi o meno, è cosa che mi riservo di verificare al più presto con una lettura comparata dei testi. Naturalmente, per non fare un torto ai filosofi che nelle loro opere hanno parlato di stato di natura, occorre distinguere fra modello teorico ed ipotesi storica. Certamente, lo stato di natura di Hobbes è un modello teorico che funziona egregiamente nella fondazione teorica del Leviatano e della relazione protezione-obbedienza. L’ipotesi storica dello stato di natura corrisponde probabilmente più a una banalizzazione del concetto che non ad un’ipotesi seriamente presa in considerazione. Per questo, sia Grimaldi sia Spedalieri hanno facile gioco a demolirla.

Ma non per questo Spedalieri si sottrae ai vantaggi teorici forniti dalla teoria contrattualistica, che presuppone uno stato originario in cui si costituisce il contratto che tiene uniti gli uomini. Fra quanti amano distinguere in pactum unionis e pactum subiectionis, Spedalieri si colloca sotto il primo patto che darebbe fondamento alla società liberale. Aprendo qui una digressione che va oltre Spedalieri, è forse il caso di osservare che le cose possono stare diversamente da come sembrano: l’unione di soggetti solo astrattamente e falsamente eguali si risolve in un’abbandono dell’individuo debole che soggiace al forte, mentre la soggezione ad un princeps avviene in genere mediante una contropartita che assicura ad ognuno, e soprattutto al debole, l’essenziale di cui ha bisogno (la vita con tutte le libertà personali e gli agi materiali compatibili con il grado di sviluppo storico della società). Chiusa la digressione. Il pactum unionis rivela poi tutta la sua fragilità nel momento in cui per i più vari motivi si produce il conflitto. Anzi, considerando il conflitto sociale come un dato permanente, l’idea stessa di pactum unionis si rivela un mero espediente per mantenere la pace sociale e la stabilità dei contratti.

Oggi farebbe inorridire in Spedalieri l’ammissione della pena di morte come strumento principe per la difesa dei diritti individuali e collettivi. Infliggere la morte ad altri è inteso come un diritto, implicito nel diritto all’uso della forza, che è concesso dapprima allo stesso individuo per la difesa e affermazione dei suoi diritti, ed in un secondo momento alla collettività, ovvero allo Stato che la esprime. Evidentemente Spedalieri doveva sentire in modo acuto il problema della sicurezza. Per essere poi un prete, caro a Pio VI, occorre aggiungere in modo particolarmente acuto. Si può ricondurre la pena di morte al diritto di legittima difesa, ma allora non è più la stessa cosa: la legittima difesa è riconosciuta in tutti i sistemi giuridici storicamente esistiti, anzi è un vero e proprio principio di diritto naturale che coinvolge anche le bestie, non solo gli uomini. Del resto, non sono infrequenti i casi, anche in epoche a noi vicine, in cui la pena di morte era comminata non solo come pena per aver causato la morte ad altri esseri umani, ma anche per attentati al patrimonio.

Spedalieri resta tuttavia un autore complesso che non consente facili generalizzazioni. Dalla diretta visitazione del testo mi riservo di rivedere i giudizi sopra sommariamente abbozzati e soprattutto di ricavare impressioni dirette.

(segue)

Links:
1. Bronte insieme: scheda su Nicola Spedialieri con iconografia. Da questo link sono tratte le illustrazioni da cui sopra. Accedendo al link possono leggersi le didascalie.